lunedì 9 gennaio 2012

L'isola nuda (Hadaka no shima)

L’ISOLA NUDA (HADAKA NO SHIMA)
Regia di Kaneto Shindo

In una piccola isola in mezzo al mare vive una famiglia di contadini con due bambini.
Possiamo osservare lo svolgersi delle giornate in cui vengono seguiti soprattutto i genitori (praticamente gli unici a curarsi del terreno e dalla casa).
Per tutta la durata del film queste persone non dicono una parola ad eccezione di uno dei figli, e precisamente quando questi canta nella scuola (sulla terra ferma). C’è quindi il contrasto tra la vita in natura e quella in città, accompagnato dall’instabilità e la fragilità di uno stile di vita che sempre più viene soffocato dallo sviluppo urbano (che assorbe continuamente le persone, compresi i contadini, per mancanze e necessità). La natura viene qui vista come un’entità che rallenta.
Rallenta i movimenti, tiene attaccati al terreno, pesa e ammutolisce. Ciò che è armonia acquisisce anche qualcosa di poco scorrevole. Il silenzio è visto come simbolo di un collegamento diretto con la natura, anche se oramai si tratta più di una ceca fede che continua per inerzia, per abitudine, e non per scelta (o almeno questi sono i pensieri che probabilmente sconvolgono la madre dei due bambini).
La città al contrario necessita della parola, che fa da ponte per la “natura della comunicazione” stendendo un passaggio tra il cittadino e la natura vera e propria, passando sopra (o attraverso) la città.
L’uomo si ritrova ad essere dipendente dalla natura e dalla città. In quest’ultima il silenzio è qualcosa di non naturale.
Il vivere confrontandosi continuamente con l’ambiente selvaggio costa caro alla famiglia di contadini, con la morte di uno dei figli. La donna guarda i fuochi d’artificio dall’isola, ma sa che la terra ferma è troppo lontana. Sembra una banalità ma la terra dà e toglie.
I bambini vengono paragonati alle piante. Entrambi (bambini e piante) vengono allevati, innaffiati con cura. E come allaga e soffoca le piante, così il diluvio soffoca il bambino. Si tratta di una selezione naturale, di un ciclo.
La donna ha un crollo sui campi e maledice quel ciclo naturale che le ha strappato via il figlio.
Il marito però continua ad annaffiare la piante. Non perché non stia soffrendo o non comprenda il dolore della moglie, ma perché sa di essere parte dell’isola. È un albero, un campo seminato.
Ha la sua parte nel ciclo, come tutti coloro che vivono lì con lui. Difatti continua ad annaffiare, a dar vita, energia. La moglie di seguito comprende la sua fermezza e lo aiuta nel lavoro.
La vita in natura ha sempre una maggiore necessità dell’intervento della città (il padre che vi si reca per cercare il medico) e quindi una minore autosufficienza. Si può dire che ci sia un conflitto di culture all’interno di una cultura più generale.
Kaneto Shindo qui parla poco e dice molto sui conflitti interiori di un’umanità in cambiamento.
Ci offre il ritratto della morte di una generazione e l’affermazione di un'altra umanità più distaccata dalle sue origini, ma che paradossalmente sembra rientrare nel percorso naturale della nostra specie.
È un film giapponese, e i film giapponesi di solito rispecchiano situazioni per noi difficilmente comprensibili perché strettamente legate alle realtà del Giappone. Qui però credo venga mostrata una condizione umana facilmente riscontrabile sia nella storia di molte altre popolazioni, che in quella più intima della nostra identità personale.


                                                                                   Valerio Domenico de Cinque

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